Pensavo di chiudere il blog nel giro di un paio di giorni, invece sforno un’altra recensione, tanto posso sempre illudermi che non le legga nessuno.
Autocompiacemento? Megalomania? Mastoplastica? Anca sbilenca?
Qualsiasi sia il problema che mi affligge, questo seconda prova di Duncan Jones, di cui presto si sentirà parlare come di un fenomeno della regia, ne ha sicuramente calmato gli effetti.
Il figlioletto del DucaBianco ci aveva già stupido con quel capolavoro di cinema indipendente che è Moon, la sua seconda fatica lo vede infilato tra le esigenze di spettacolo di Hollywood e la (sua) necessità di filosofeggiare su una sceneggiatura (Ben Ripley che non so chi sia ma già lo amo) che gli offre l’occasione di giocare con la fisica dei quanti.
Ora. A me non frega un’acca storta di stabilire quanto la fisica quantistica sfruttata da Ripley e Jones venga rispettata o utilizzata senza seguirne pedissequamente le regole e questo per due motivi: innanzitutto perché della fisica dei quanti non ci capisco assolutamente nulla e, in secondo luogo, perché non trovo sia un argomento da dibattere mentre si discute un film del genere. È capzioso, direbbe Luttazzi, e sciocco, aggiungo io. Invece mi interessa il viaggio di un personaggio all’interno di un mondo posto sotto i suoi piedi senza che egli stesso ne capisca il senso e la genesi.
In poche parole (è un film che straconsiglio, cercherò di evitare spoilerate) ci troviamo su un treno dove il capitano Colter Stevens si sveglia senza capire esattamente cosa ci faccia e il perché. Non conosce nessuno e l’ovvia gnoccola da iperventilazione che si trova di fronte, tal Christina, invece pare sapere esattamente chi egli sia, anche se lo chiama con un nome che non è il suo. Colter scoprirà poco dopo che la sua mente è nel treno, connessa da un altro luogo laddove si (ri)sveglierà, facendo la conoscenza del capitano Goodwin.
Contrariamente al meno riuscito (ma assai gustoso) Inception di Nolan con le sue matrioske, qui Jones ci delizia con le realtà parallele, i recessi e le infinite possibilità della mente in una salsa hi-tech condita dal solito bisogno di fare profitto. Il tutto dosato con estrema grazia. A questo scopo la facciotta ebete di Jake Gyllenhaal si presta alla perfezione mentre il prode ma limitato capitano che interpreta prova a fare ordine nella scena che è costretto (quella del treno appunto) a rivivere all’infinito. Jeffrey Wright è il professor Rutledge, ideatore e promotore del sistema a cui Gyllenhaal deve sottoporsi. Un po’ imbalsamato, per la verità, ma vibrante quando si tratta di trasmettere gli scopi principali del suo personaggio, un’interpretazione composta e adatta nel complesso. Agli occhioni dolciosi di Vera Farmiga il compito di incarnare il lato umano ed esclusivamente vero del film. Il suo capitano Goodwin è l’interfaccia che collega Colter alla realtà, lo mantiene in vita e lo protegge. Un personaggio chiave a cui Jones affida tutti i compiti di “collegamento” tra i mondi in scena e, di conseguenza, incarna anche l’unica ancora all’essenza umana “vecchia maniera” che le realtà parallele del film sembrano voler sfilacciare.
In questo ordine narrativo Jones si attiene con costante attenzione, non lasciandoci mai veramente smarriti. Un qualcosa che gli era riuscito anche in Moon, confermandone le doti.
Michelle Monaghan è la chimera, il sogno, la fine del viaggio. La sua Christina vive con Colter l’infinito ripetersi della scena del treno e ne cattura via via le attenzioni con delicata inconsapevolezza. Che la Monaghan lo faccia apposta perché brava o le venga a caso perché svampita non è dato sapere, ma a noi ci piace il risultato, alla fine…
Nel periodo in cui Fringe sta totalmente accalappiando le mie attenzioni, questo film ne è il perfetto companatico ma per ogni film decente ne devo stroncare almeno un paio… Quindi vedrò di spulciare nei meandri della mia psiche malata, laddove il ricordo di una porcata colossale generica sonnecchia beato, in attesa….