Non so dove avessi detto che Spacey è uno dei miei attori preferiti: un po’ per la colossale faccia da schiaffi che si ritrova, un po’ per l’aria da psicopatico con evidenti problemi che sa conferire ai suoi personaggi, un po’ perché di interpretazioni ne sbaglia poche ma, soprattutto, perché sa cucirsi addosso i personaggi che interpreta.
La sfortuna è che se ci allontaniamo dal cliché dello psicopatico su cui Spacey ha montato il suo primo successo, ci ritroviamo davanti a sublimi gioielli d’interpretazione (Big Kahuna, American Beauty, Americani, The Shipping News).
Insomma KS è un cribbio di fenomeno e non accetto alcun diniego.
Quale bizzarria mancava alla pittoresca carriera di questo istrionico (grande) attore, (anonimo) regista e produttore?
Ma ovviamente una specie di OneManShow dove il nostro Spacey potesse divertirsi come un maiale e far, di conseguenza, divertire noi.
House of Cards…
Doveroso è addentrarsi in cosa costituisce codesto HoC, e cioè una serie TV acquistata e distribuita da una net tv, ossia Netflix. In sostanza una scommessa di questa tv web, scommessa dalla posta parecchio alta perché oltre alla prima stagione, conclusasi da poco, ne è sempre stata prevista una seconda. Netflix millanta un discreto successo della serie ma, a ricercar bene, non è che abbia trovato dei numeri in giro. In qualunque caso il vil danaro speso ha comunque prodotto qualcosa per cui val la pena perder qualche ora.
La serie è un remake di un omonimo show britannico trasmesso nei primi anni ’90, cambiato il nome ai personaggi e trasportata la trama nella repubblica federale statunitense, ecco che a farci compagnia è il faccione di Frank Underwood, abile uomo politico democratico che aiuta il candidato presidente a prendersi la Casa Bianca. Al nostro Frank il candidato Presidente aveva promesso la Segreteria di Stato ma, a vittoria ottenuta, inverte la rotta; al personaggio interpretato da Spacey il compito di “vendicarsi” del Presidente spergiuro. A modo suo, ovviamente.
L’impatto con la serie, per quanto girata da Fincher (nelle prime puntate) che è uno che se la dovrebbe cavare, conserva qualche piccola stortura, diciamo. Innanzitutto la scelta di rendere partecipe il pubblico delle macchinazioni di Underwood: ogni tanto Spacey guarda in camera e parla con noi, ci rende complici e consapevoli di ciò che sa solo Underwood. Dunque tifiamo per lui, per forza, o comunque questo è l’assunto del regista. Perché stona? Perché Underwood non ha scrupoli, non è esattamente un personaggio positivo; si gioca, furbascamente, sull’indubbio carisma di Spacey. La cosa irritante è che funziona.
Un altro dettaglio che ho faticato a digerire è che nelle prime puntate Underwood sembra infallibile. Raggira, concorda, sconfigge, ottiene… Tutto lui, porca paletta, quasi da far passare in secondo piano un cast golosissimo e pure azzeccato di cui vado a spulciare qualche nome.
Robin Wright è Claire Underwood, una stronzona dalle idee chiare e dalle palle d’acciaio che contende al marito la palma dell’essere più cinico dell’universo; con alla coppia, la Netflix ha messo assieme un gruppo nutrito e funzionale di comprimari d’assoluto impatto. È questo che arricchisce di molto HoC: il contorno si sposa, via via che le puntate avanzano, con la coppia protagonista: Kate Mara è la giornalista affamatissima Zoe Barnes, un visino un po’ troppo pulito ma l’aria svampita dell’attrice si sposa assai bene con l’esigenza di far apparire Zoe una sprovveduta piena d’ambizione, ce prova e ce riesce, insomma.
Michael Kelly è l’azzeccatissimo braccio destro di Underwood, Doug Stamper, cinico ed efficiente tanto quanto lo è l’attore nel rendersi automa pronto a tutto. L’ultimo nome che faccio è quello di Corey Stoll, il cui controverso Peter Russo si affaccia nelle prime puntate per accompagnarci sino alla fine della stagione. Un’interpretazione solidissima, a mio modesto avviso, fatta di dubbi, dolore, di una sofferenza a metà tra le responsabilità e il bisogno d’autodistruzione. Un lusso.
La prima stagione è stata sceneggiata con piglio capace: le storie che si intrecciano sono dosate a modino, condensandosi tra le spire dell’intrigo politico principale; così il rapporto tra Claire e Frank trova evoluzione tanto quanto quella tra Frank e Zoe, mentre assaporiamo la carriera indipendente, ma non troppo, della stessa Claire e della sua fondazione. Per fortuna gli ostacoli al piano di Underwood arrivano a mettere pepe nella vicenda e le puntate centrali della stagione vedono il miglior Spacey, sebbene, lo rimarco, a me è parso che più che recitare si sia divertito parecchio.
Con l’andare della stagione ci si abitua agli occhioni di Underwood che puntano ogni tanto in camera, tanto da sentirne la mancanza quando non accade, su questo avrei qualcosa da ridire perché se una strada la persegui, forse, è meglio farlo fino in fondo.
Per quanto mi riguarda, a questa serie, un’occasione la si deve dare solo per Spacey. Il resto è mancia.