Riapro il blog dopo eoni perché, come direbbe il Joker: “mi punge la vezza di fare un po’ di fotting”…
Quindi parliamo di Tarantino e del suo nuovo Once Upon a Time in Hollywood, ma prima la locandina…
Innanzitutto… Il marasma di insulti che leggo in giro contro quest’opera mi solleva l’istinto omicida di un Jack Lo Squartatore qualsiasi, ma non per questo farò l’arrogante e non vi dirò che non ne capite un cazzo… Chiaro?
Prego apprezzare la mia sottile ironia…
Una cosa invece l’affermo e cioè che il regista ha più volte detto e ripetuto che dell’opinione di chicchessia lui se ne batte le ciufole, a perenne monito dei criticoni da filosofia spiccissima, ricordo l’ultima scena dei Bastardi, dove l’occhio del regista, sovrapposto al magniloquente Aldo Raine, si bea della sua grandezza e non ce la manda a dire…
Quindi, per zio Quentin, potete andare tutti in quel posto…
«Ehi ma criticare è un mio diritto costituzionalmente riconosciuto!!!»
Ecc’hai ragione, porcocribbio, ma giusto perché uno critica e si prende il diritto di farlo, ecco che arrivo io che critico chi critica perché, banalmente, penso quello che non vi ho detto ma che vorrei dirvi, e che non vi dirò per rispetto, ma rido lo stesso, da solo, al buio, mentre il mondo pensa che io sia entrato in una fase della mia esistenza in cui insulto le nuvole pur di avere qualcosa di velenoso da urlare al prossimo.
Chi ha detto “schizofrenico del cazzo”?

Un sorriso che fa un male cane… ❤
Torniamo al film…
La storia narra le gesta di un famoso attore di Hollywood, tal Rick Dalton (uno strepitoso, e quando mai, Leonardo Di Caprio), e della sua parabola discendente da icona di una serie TV western a protagonista di film italiani dello stesso genere. Rick non è solo vittima dei suoi problemi (sindrome bipolare, alcol, autocommiserazione), ma anche di un sistema spietato fatto di etichette e delle conseguenze che ad esse si legano. Un attore che inizia a interpretare il cattivo è destinato a prenderle e ad ammantarsi dell’immagine del perdente (spiegata da un lussureggiante Pacino), quindi a Rick non resta che l’Italia e lo spaghetti western tanto sbeffeggiato oltreoceano, se non quando Leone se ne occupa.

Sharon Tate e Roman Polanski
Rick si accompagna a Cliff Booth, il suo stuntman (Brad Pitt in forma smagliante), che gli fa da autista, amico, guardaspalle e consigliere. Insomma una coppia composta da un nevrotico attore di talento e dal suo fido compagno di vita. I due, nelle più classica delle tarantinate, svolgono la loro vita senza sapere a quale destino il regista li sta preparando. Però a noi questo destino è chiaro fin dalle prime battute del film, quando la camera indugia, e non senza la nostra approvazione, sulle gambe (i piedi in particolare) chilometriche di Margot Robbie che interpreta Sharon Tate. Le vicende si svolgono nel 1969 e, se mai servisse una conferma, l’apparizione di Charles Manson (Damon Herriman, lo stesso attore usato nella seconda stagione di Mindhunter per interpretare ancora Manson) ci prepara al botto finale, ove i tre protagonisti vivono un episodio che assume i tratti tragicomici tipici del cinema tarantiniano, in quella che pare essere una strepitosa catarsi di una delle peggiori tragedie che hanno investito Hollywood.
Lo svolgimento di questo plot, come al solito mai troppo ingarbugliato (il che è tipico di Quentin) rispetta i suddetti crismi tarantiniani prima maniera, e cioè che all’apparenza nulla sembra legare i destini di questi personaggi se non nelle scene cosiddette “madri”; la normale follia che caratterizza l’assurdità di certe scelte è pregnante solo e solo se indaghiamo un pochettino più a fondo: troviamo che le storie di Rick e Cliff sono liberamente ispirate dal rapporto tra Burt Reynolds e la sua controfigura, lo stesso Rick non rappresenta altro che una categoria vera e propria di attori che hanno visto la gloria per un serial e si son persi via durante la loro carriera; la scena madre di Cliff, che finisce in un ranch dove incontra coloro che faranno parte della Famiglia, è liberamente ispirata a un fatto vero raccontato da Gary Kent proprio al regista.

Harriman in Mindhunter… Calzante, eh?
Al solito, questi elementi non fanno altro che corroborare la tesi secondo cui Quentin non sappia scriversi una fava e sia in grado solo di fare dei patchwork con le storie di qualcun altro, con lo stile di qualcun altro, ricordando qualcun altro: eppure Quentin è così dagli albori, o te lo ciucci o lo ignori. Io invece ci vedo il solito lavoro certosino in cui prendi elementi disconnessi tra loro e li mescoli in una trama senza apparente capo e ne’ coda, li fondi in un percorso ben definito che ti proietta al finale ove la catarsi trova il suo apice, con un epilogo che sa di vaffanculo e un elemento a metà strada che aiuta a corroborare la tesi che semplifica senza ritegno l’analisi del film.
Questa è una storia.
Una storiella forse?
Un aneddoto di fantasia?
Chi filosofeggia su Tarantino, chi ci vede del machismo o addirittura del razzismo, non fa altro che la figura del ragazzino che si masturba perché la professoressa ha sollevato parte della gonna per scacciare una zanzara. Ti ci vuoi pastrucciare? Oh certo, ma poi non convocate il moige per licenziare la prof magari tacciandola di violenza sugli animali… Eccheccazzo. Siete scemi o cosa?
Tarantino, lo ricordo, ha tamarreggiato sulla seconda guerra mondiale, cosa volete che glie ne freghi del razzismo o misoginismo nei suoi film? Ma andate a cagare.

Uno degli spaghetti western a cui si piega Rick nel film…
Questa è una storia di fantasia dove l’ideatore esorcizza un evento orribile e ci piazza il suo gusto per il cinema dell’epoca e riesce pure a pretendere da Di Caprio la solita interpretazione sublime, si masturba (lui sì con cognizione di causa) con la musica e si prende tutto il tempo per distogliere lo spettatore dal plot, cercando di farlo fissare sulle storie dei singoli e regalando momenti apparentemente inutili per poi farli confluire nel solito roboante finale che, per intensità di significati, mi ha preso molto di più del comunque gradevole The Hateful Eight.
Dicevo di un elemento a metà strada, elemento tra l’altro discusso pesantemente, che mi ha fatto riflettere sulla faccenda: la disputa tra Cliff e Bruce Lee.
Ricordando il suo passato, Cliff rivive un episodio in cui viene sfidato da una versione attaccabrighe di Bruce Lee a darsele di santa ragione. Conoscendo Tarantino, la figura di Lee è sempre stata rispettata e onorata, vederselo relegato a guitto da set mi ha dato da pensare che Quentin intendesse sottolineare proprio la surrealtà catartica della sua pellicola: sarei disposto a un Bruce Lee tamarro pur di arrivare al finale che vi presento.
Posto questo, è vero anche Bruce Lee sfidò uno stuntman durante le riprese di Green Hornet, difatti Cliff lo apostrofa in continuazione col nome di Kato per ricordarne il riferimento. Mica pizze e fichi.

Leo e Quentin.
Siamo di fronte ad una perla di cinema tarantiniano, con i suoi richiami (anche alla casualità tipicamente kubrickiana), il suo stile, insomma il suo cinema; due attori in forma splendida e un continuo amarcord che rilascia la necessità di documentarsi e emozionarsi di più alla seconda visione.
Serve altro?
ma di volley ne riparlerai???
Ci provo, ho qualcosa in cantiere…